Marco Ariano, Pietro D’Agostino, Marco Giovenale
Un’idea di gioco si trasforma in condivisione. Condividere un indice, elenco senza gerarchie, aperto. E dei prologhi, inizi che non giungono mai a completezza, aperti anch’essi.
Uno spasso. Un modo di percepire/sentire comune. Tre individualità, pronte ad aprirsi e a coinvolgere altri autori, dilatano territori, distribuiscono indizi per il piacere di condividerli, in consonanza. Un gioco di lanci, di attese e sovrapposizioni non preventivate.
Il gioco è comunitario, senza descrivere chi fa cosa, senza soggetti autoriali specifici e legati ai propri linguaggi espressivi. Qui l’aperto si fa tangibile, non un’assenza da rincorrere, ma un percepire/avvertire per attraversare ed essere attraversati. Esiti e materiali tutti da definire, liberati.
L’indice e il prologo, nei libri, hanno funzione addomesticatrice: l’indice ne disegna la scala: e comunica l’ordine; il prologo prepara a, profetizza, e perciò garantisce un margine di controllo sulla materia. È a partire dal ribaltamento di questi presupposti, dunque, che si capisce l’operazione che – a nome INDEX – compiono Pietro D’Agostino, Marco Giovenale, Marco Ariano e (da un certo momento) Luca Venitucci; un’operazione di sovversione (anche ironica) delle gerarchie strutturali e di osmosi tra i media.
"Del resto, la serie prologue – che nasce nel 2013 e conta oggi quattro capitoli – non è prologo a niente: si tratta di quattro frammenti audiovisivi di pochi minuti che non introducono nessuna opera veniente, nessun testo. Non solo: la loro natura implosa, disorganica, gli impedisce anche nella forma di assumere un ruolo esplicativo o preparatorio. Né prologo reale, dunque, né prologo allusivo – paradosso, semmai, di un oggetto estetico che viene collocato, attraverso il titolo, in un pre-, ma che poi non può anticipare nulla se non la propria finitudine.
Se dovessimo quindi descrivere i prologue, pure diversi fra loro quanto a atmosfere evocate (più oscura quella di prologue 1, ad esempio, rischiarata invece quella di prologue 2), individueremmo alcune costanti formali: 1) l’abolizione della sceneggiatura (almeno in senso tradizionale), che impedisce lo sviluppo di una storia all’interno del film; 2) l’imprevedibile oscillazione (sonora e visiva) tra momenti contemplativi e momenti di agitazione; 3) una relazione “non referenziale” tra il medium e il suo specifico oggetto (un’inquadratura che non definisce inequivocabilmente l’inquadrato; un flusso sonoro che non propone un’architettura stabile, tantomeno una melodia; un testo che non punta a dire qualcosa); 4) di conseguenza, il glitch (l’imprevisto, l’errore, il non-finito) come esplorazione felicemente selvatica del medium.
L’analisi potrebbe essere estesa e approfondita, ma queste quattro ricorrenze permettono già di definire più chiaramente l’operazione. Che i prologue non preludano a nulla non esclude infatti che si posizionino – a posteriori, anche, per via di ciò che risulta dalle interferenze degli artisti – in un certo orizzonte estetico e filosofico. E così, schematizzando ancora, osserviamo: a) l’improvvisazione contemporanea degli artisti (ricordiamo che D’Agostino si occupa del video, Giovenale del testo, Ariano e Venitucci del suono) come campo di liberazione degli strumenti e slogatura sincronizzata (o programmaticamente desincronizzata) dei rispettivi codici; b) la rottura della gerarchia tra sfondo e figura – è tutto sfondo (i media retrocedono a uno stadio residuale, pre-creativo) o tutto primo piano (il glitch porta avanti, espone, le fratture dei media); c) il testo (anti-logocentricamente) incapace di farsi sigillo interpretativo dell’opera (siamo ben lontani da ciò che a volte si intende per video-poesia, con la scenografia a servizio del testo: Giovenale rompe il linguaggio nelle sue unità minime, fonico-sillabiche, lavorando più sulla parola registrata, sulla sua emanazione audio, che su quella scritta); d) una sorta di metempsicosi dei media, con il testo che diventa pasta sonora, il video che riprende un testo (come le scritture asemiche di prologue 3, a loro volta già in qualche modo testi diventati immagini), la musica che si disarticola fino a una serie di jump-cut sonori.
Il risultato di queste tessiture saltate – sempre vissute, dice il brano di presentazione, con apertura e «spasso» – è dunque una dimensione esteticamente anarcoide, inabitabile per lo spettatore. Nessuna guida (nessuna parola) conduce chi guarda all’interno dello squilibrato universo dei prologue, non gli mostra un percorso preordinato e “significante”, né gli dà bussole. Nessuna esperienza ipnagogica – cioè orientata o orientabile – è dunque possibile. E però è proprio in questa prospettiva di destrutturazione programmatica, in questo mix di gioco e inquietudine (priva però di qualunque tragicità), che si coglie la cifra di INDEX: portare l’artista a misurare limiti e potenzialità del proprio strumento dialogando con quello altrui, e diverso; portare lo spettatore a emanciparsi da alcuni meccanismi di attesa del senso che sono introiettati e per(ci)ò limitanti."
Antonio Francesco Perozzi